24 Mar Le parole sono importanti !
“L’energia segue l’attenzione. Ovunque si posi l’attenzione, è lì che andrà l’energia del sistema”- C. Otto Scharmer
Nanni Moretti nel suo film “Palombella rossa” in un dialogo paradossale e, nello stesso tempo, illuminante, quando la sua intervistatrice, parla di “…matrimonio a pezzi” e “…alle prime armi “lui le grida: “ma come parla? le parole sono importanti!!!!!”.
Appunto, le parole sono importanti.
Sono importanti quelle che le persone ti dicono quando esprimono il loro punto di vista riguardo un cambiamento, sono importanti quelle che scegli di esprimere quando fai un ascolto riflessivo, poni una domanda aperta o imposti un riassunto e sono importanti anche le parole con le quali definiamo le azioni professionali tra professionisti.
Nel servizio sociale e non solo, esiste un gergo professionale che dovrebbe farci riflettere perché non si tratta di “lana caprina”.
Si dice spesso “prendere in carico” un caso e questa espressione dà certamente l’idea di qualcuno (il professionista) che si carica sulle spalle la persona: sappiamo tutti che non è così, d’altra parte affermare che si prende in carico una persona certamente non favorisce l’idea che il nostro compito è quello di “…valorizzare l’autonomia, soggettività e capacità di assunzione di responsabilità, sostenendole nell’uso delle risorse proprie e della società…”[1]. Inoltre, quando si “prende in carico” una persona (e spesso le persone sono gravose!!) se ne sente il peso sulle spalle e questo non aiuta a “…riconoscere la centralità e l’unicità della persona in ogni intervento…”[2]. C’è una bella differenza a voler affiancare una persona in un percorso verso la sua realizzazione personale, di cui lei è responsabile e protagonista e a sentire il dovere di caricare la persona sulle proprie spalle.
Purtroppo ancora molti operatori delle relazioni d’aiuto (ed interi servizi!) convivono quotidianamente con emozioni difficili legate al secondo scenario.
La serenità che si guadagna da questo cambio di prospettiva facilita e rende meno pesante e più efficace il proprio lavoro.
Le parole sono importanti!
Altro verbo che si sente spesso utilizzare è “agganciare” (“bisogna agganciare il sig. Rossi”). È addirittura paradossale pensare che un professionista delle professioni d’aiuto abbia l’obiettivo di “agganciare” una persona. L’azione dell’aggancio figura chiaramente un’entità attiva che aggancia e una passiva che viene agganciata. Pensare che il compito di un professionista o di un servizio sia quello di agganciare una persona è assolutamente fuorviante se intendiamo come uno degli obiettivi della professione d’aiuto quello di “…valorizzare autonomia, soggettività e capacità di assunzione di responsabilità, sostenendole nell’uso delle risorse proprie e della società…”[3] Il richiamo al ruolo attivo della persona in ogni percorso di aiuto è fondamentale in ogni approccio alla professione d’aiuto e il concetto di aggancio ci allontana da questa consapevolezza.
Nel colloquio motivazionale è parte essenziale dello spirito e si inserisce nella composizione del concetto complesso della accettazione.
Le parole sono importanti!
Un ultimo accenno al concetto di trattamento, quando si parla di “sottoporre la persona al trattamento” o “favorire la ritenzione in trattamento” ci si allontana progressivamente dall’idea della centralità della persona e ancor più ci si allontana dall’idea che quello che il professionista o il servizio possono offrire alla persona è un affiancamento e un sostegno nel suo percorso di cambiamento. Il concetto di trattamento induce a ritenere responsabilità dell’operatore di definire il percorso che la persona dovrà seguire e di fare in modo che la persona lo segua. Nessun progetto è tale se non è condiviso dal nostro cliente.
Nel colloquio motivazionale viene sottolineato e agito dall’operatore un atteggiamento di collaborazione che vede due esperti nella relazione d’aiuto: l’operatore, esperto della sua professione (lavoro di rete, risorse del territorio, leggi e normative che regolano l’ambito di riferimento ecc.) e la persona massima esperta di se stessa (sue risorse personali e ambientali, suoi punti di forza, suoi punti di fragilità ecc).
Judith Herman[4], pioniera nel lavoro sul trauma e nel denunciare il rischio delle dinamiche di potere insite nelle relazioni di aiuto, afferma che lo scambio di informazioni permette alle persone di sapere quello che sa l’operatore, con l’obiettivo di rendere equo il rapporto di potere e il pieno coinvolgimento della persona nel suo percorso di cambiamento e di crescita personale (sharing power, condividere il potere). Il Colloquio Motivazionale sposa in pieno questa prospettiva, inserendo l’empowerment tra gli elementi dello spirito.
Dalla relazione tra questi due esperti, dove ognuno condivide la sua competenza, si costruisce il progetto di cambiamento partendo dalla posizione della persona e affiancandosi a lei con un atteggiamento di accettazione incondizionata priva di giudizio.
Tutto molto lontano dal sottoporre la persona al trattamento.
Le parole sono importanti!
Non credo che i professionisti delle professioni d’aiuto pensino veramente di doversi caricare sulle spalle le persone, di doverle agganciare come si fa con i tonni in una tonnara né che pensino di avere il potere di sottoporre le persone a dei trattamenti. Credo però che questo gergo automatico ed inconsapevole sia diventato parte del ruolo professionale, e non aiuti a tenerci lontani dal pensiero di essere responsabili dei cambiamenti delle persone, di essere esperti non solo della propria professione ma anche esperti delle persone che hanno di fronte.
Queste parole alimentano l’idea che i fallimenti delle persone, le loro ricadute, la loro scarsa disponibilità al cambiamento siano una nostra responsabilità, e questi pensieri sono l’anticamera del burn out e della compassion fatigue.
Se il nostro obiettivo è quello di creare in noi un certo mindset che favorisca davvero il cambiamento nelle persone, che esprima i valori dello spirito motivazionale e che favorisca il benessere nostro oltre che del nostro cliente, è necessario un lavoro di decostruzione di alcuni termini del lessico nelle relazioni d’aiuto.
Tutti noi siamo “cresciuti” in questo contesto e quindi abbiamo dentro di noi questi automatismi. Non siamo cattive persone per questo.
Tuttavia possiamo sempre iniziare portare maggior consapevolezza nel nostro lavoro partendo dai pensieri della nostra mente, dalle nostre narrazioni, anche quelle condivise con colleghi ed equipe.
Quale grado di pazienza sentiamo rispetto al cliente, se pensiamo di accompagnarlo anziché “prenderlo in carico”?
Quale sarà il nostro grado di ansia internamente all’idea di “stabilire una relazione” con il cliente anziché di doverlo “agganciare”? Fateci caso.
Con che tono di voce, con che attenzione, ci rivolgeremo ad una persona con cui “condividiamo un progetto” anziché un interlocutore che “sottoponiamo a trattamento”.
Senza la consapevolezza, le parole che usiamo convogliano la nostra attenzione e quindi la nostra energia in certe definizioni, che possono nel tempo costruire abitudini e stili di relazione fuorvianti e inefficaci nell’accompagnare le persone lungo il cambiamento.
Fare caso alle parole che usiamo anche per definire ciò che realmente facciamo nel nostro lavoro, scegliere intenzionalmente dove dirigere l’attenzione e la nostra energia, è una preziosa opportunità per rimanere presenti allo spirito motivazionale in ogni momento. E’ una pratica trasformativa prima di tutto per noi stessi.
Le parole sono importanti!
Annachiara e Valerio
[1] Codice deontologico assistenti sociali art. 11
[2] Codice deontologico assistenti sociali art. 8
[3] Codice deontologico assistenti sociali art. 11
[4] Judith Herman (1992) Trauma and Recovery. New York: Norton. Tr. It. Guarire dal traum. Roma: Ma.Gi.